Si viveva davvero senza strutture, fuori da ogni struttura, si ballava il ballo di San Vito dei buchi neri del linguaggio, delle contraddizioni.
CB
Come per il Carnevale anche l'estate offre qualcosa che mi fa partire le rotelline del cervello verso lidi arcaici. Tra i palloncini, le caramelle, bimbi che piangono, l'estate, nel Sud del sud dei santi è il luogo delle feste patronali. Feste in cui comunità si radunano intorno a un modello religioso, più o meno coinvolto nella vita passata, legato a fatti tradizionalmente riconosciuti miracolosi, che si perdono nella notte dei tempi. Ecco quello che mi colpisce: l'esplosione, sublimata ormai da secoli, dell'irrazionale. C'è chi si concentra sull'aspetto folkloristico, chi sul neomelodico di turno che macina concerti in nero sui palchi delle piazze di paesi più o meno grandi; a me, come già scrissi per il Carnevale appunto, colpisce invece per quello che c'è al di là. Una parte della festa, quella tipicamente religiosa, che ne sei secoli è stata etichettata come "pratica pietosa" "devozione" in realtà prevede che un gruppo di persone, maschi e femmine, si sottopongano a una inesausta fatica portando per tutto il giorno una pesante agalma del santo di turno. Uso la parola greca agalma e non statua perchè, da quello che mi è dato di capire, è il tramite col divino, è la massa di cartapesta antropomorfa ad essere la copula tra la terra e il cielo. Oggetto di venerazione a sé stante, intorno alle presunte facoltà miracolose cresce un florilegio di aneddoti, uno dei quali, il più diffuso e più recente, è che la statua sia sopravvissuta ai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Dicevo, una parte della popolazione si sottopone in maniera quasi masochista a prove come corse, ciondolii, urla dei corifeo che coordina i movimenti, sopportando pesi enormi. Alla fine della fiera, sempre tra granite, caramelle, il neomelodico di cui sopra, gli accollatori esausti sono riaccolti dalle famiglie e abbracciati a mogli e figli. C'è chi ci vede la devozione, io ci vedo ciò che rimane di un rito antichissimo che parla di uscita dal sé e di riconoscimento sociale. Mi fa gioco la considerazione di Carlo Levi che al sud la ragione cartesiana, la misura, non sono ancora entrate. Sfogliando il volume "Sud e magia" di De Martino si vedono immagini di fattuchiere, uomini e donne che curano i deliri provocati dalle febbri reumatiche (il ballo di san Vito) con i violini e con ritmi incessanti.
Quel volume è del 1959, comprende studi entologici compiuti in Lucania, ma non penso che quello che vado osservando nei dintorni da un paio di mesi tra Caserta e le sue vicinanze gli sia molto distante. Non ci sono più tarantolati, le feste sono dei momenti conviviali, ma in entrambi i momenti è comune una certa ansia verso l'andare oltre sé stessi, del tutto incosapevole ovviamente, di quanti si sottopongono a sforzi del tutto gratuiti. La distanza è inoltre provocata dal fatto che qui, dove gli aggregati che conosciamo sono relativamente recenti, sia arrivato qualcosa di sublimato, ma che penso sia comunque collegato appunto, al Sud e alla Magia. Mi ricordano tanto ritualità ormai perdute anche alcune scelte culinarie borghesi, come scegliersi un tipo di pesce o un gelato prima o dopo una festa, e solo in quella determinata occasione. Tutto questo, che noi conosciamo come tradizione, come cose tramandateci dai nonni (per via orale, non a caso) penso siano comunque quei tentativi costantemente messi in atto dall'uomo di definire se stesso, la propria identità, di dare nome alle cose. Ovviamente queste manifestazioni sono l'ultimo risultato di un processo che ha contrapposto la magia alla ragione, l'oralità alla scrittura, e come per il carnevale, in una società che da tre secoli ha elevato la ragione a paradigma del mondo, l'antico sfogo della parte irrazionale del'uomo, l'uscire dal principium individuationis, della volontà che vuole solo espandersi, viene accettato solo se anestetizzato dalla ratio religiosa e dalla accettazione della contesto sociale, elementi che di fatto ne squalificano la carica irrazionale e ciaca, quasi eversiva.
Bimbo che posa in foto vicino sant'Antimo (Recale, CE) |