domenica 6 ottobre 2013

Gettare la scala dopo esservi salito

Più che avere il coraggio delle proprie convinzioni, bisognerebbe avere il coraggio di attaccare le proprie convinzioni.
Nietzsche
D'altronde detesto tutto ciò che m'istruisce soltanto, senza ampliare ed accrescere immediatamente la mia attività
Goethe

Metto per iscritto alcune riflessioni sull'università e gli studi che sto per concludere. Dopo la maturità scelsi/non scelsi lettere classiche perchè mi sembrava (e mi sembra tutt'ora) di non poter fare altro: mi sembrava l'unico modo per allenare la mia mente, per non diventare un automa come quasi tutte le persone che conoscevo e che conosco, per non entrare nell'ovvio dei significanti e le visioni parziali e solipsistiche. Alla fine mi sono reso conto che per rimanere vivo come ho cercato di descrivere ho dovuto accartocciare e cestinare anche le mie idee sulla letteratura, sul latino, sul greco, sul loro valore, sul modo in cui ci vengono spesso insegnati. Il problema, però, è più articolato e si sviluppa su due livelli: uno formale e un secondo che definirei esistenziale. Il primo riguarda quello che è lo stato dell'arte: di solito i classicisti, alla domanda (per certi versi legittima) sulla utilità delle nostre discipline, glissano sfuggendo e dicendo che l'utilità non è una categoria applicabile (un gruppo su Facebok si chiama "Lettere Antiche: siamo inutili e ne andiamo molto fieri"!!!!!): fondamentalmente così  eludono ogni risposta. Non la danno agli altri intorno e non la danno nemmeno a me, che vorrei continuare questa strada. Dovremmo scendere per strada e trovare le parole per spiegare il nostro posto nella società: se non le troviamo dovremmo trarre le conclusioni: è assodato che nella vita non c'è senso, ma in un contesto sociale di domanda e offerta di servizi, io non posso pretendere un servizio quale che sia senza offrirne un altro (sono esclusi ovviamente quelli di base, ma cerco qualcosa in più del pronto soccorso dalla società in cui vivo): se non spiego agli altri come posso essere loro utile, come posso chiedere agli altri di essere utili? Tentando di abbozzare risposte si ricorre alle cerebrali risposte di intellettuali come Canfora, La Penna, Mieli o altri (tutta gente che si è comunque realizzata in questo settore), quando non si ritorna a Gentile o Croce (per tacere della retorica sugli umanisti, sui romantici, la repubblica delle lettere...), che ovviamente non sono alla portata di tutti o, più semplicemente, non rispondono alla domanda perchè non sono sullo stesso piano. Purtroppo dobbiamo confrontarci con lo zeitgeist (scientismo, globalizzazione, decostruttivismo...) e penso sia necessaria, per prima cosa, onestà intellettuale,  liberandoci dalle etichette che ci siamo posti: noi non siamo vittime di alcunchè, la società non ci ha condannato, i nostri studi non sono ingiustamente bistrattati, a meno che per giustizia non si intenda la giustizia per me. Se sono vegetariano ed entro in una steack house non posso lamentarmi che ci sia carne ovunque. Semplicemente le cose vanno da un'altra parte, in un altro senso. Altro aspetto che ho ravvisato, che potrebbe configurarsi come una conferma  e una conseguenza dell'afasia da cui siamo afflitti: mentre parlavo con ragazze provenienti dal Belgio su ciò che studio, alla mia risposta "lettere classiche" chiedevano ulteriori spiegazioni, confondendomi con uno storico più che con uno studioso dell'antichità: ciò dimostra che nel mondo si vive bene anche non conoscendo la filologia classica (anzi, stavano proprio benissimo!).  Il problema forse è che le nostre materie servono a noi o alla società in generale, quanto a mantenere aperti i dipartimenti e pagare i professori, formatisi però in un altro mondo: nel giro di pochissimo tempo siamo passati dall'affermare il valore insindacabile dell'antico come radice della nostra identità culturale (contrapposto al tecnocratico e ateo mondo sovietico) al ritrovarci tutti insieme latini, greci, turchi, germani, africani, musulmani, hinuit sullo stesso piano, e con Platone che trova lo stesso spazio, nel mondo globale, di Osho, Lao Tzu e al-Hariri : a me non è giunto alcuna notizia di un dibattito critico in merito a questo cambiamento, e ancora continuiamo a pensare e pensarci come i veri depositari del modo più efficace di affrontare la realtà.  Mi viene da fare un'altra considerazione, più generale, sulle humanities: in Italia viviamo ancora in un bolla retorica per la quale noi dovremmo accontentarci del nostro studio, vivere male e sacrificarci per l'arte, disprezzare il mondo che non sa mettere i congiuntivi, gli apostrofi e che usa le abbreviazioni, un mondo in cui le sconfitte diventano i nostri trofei. In qualche modo anche noi vogliamo entrare nelle graduatorie ormai piene, vivere di precariato, soffrire per seguire un sogno: vivere di cultura (meglio con la C maiuscola), castigare i mores contemplando lo splendore del tempo che fu, in cui il latino e il greco permettevano ai legulei di diventare avvocati, ai medici di diventare dottori e di inserire qualche saporita citazione qua e la dando l'idea di essere intellettuali e profondi. I nostri occhi sono coperti da tutte queste parole, abbiamo letto tutti la lettera di Machiavelli a Francesco Vettori dove NM parla del suo amore verso le lettere, usciamo da un sistema scolastico che fondamentalmente è fermo a Gentile (1923)  imperniata su una visione idealistica (da intendersi non come aggettivo, ma a quella corrente filosofica che riduce l'essere al pensiero, privilegiando aspetti ideali rispetto a quello materiali) che di fatto ha ancora un'ipoteca molto forte su tutta la cultura italiana. Come tante voces clamantis in deserto parliamo ancora di valori, di senso, di bellezza (i cui canoni spesso sono fermi al romanticismo) in un mondo che invece macina dati su dati, amiamo i libri indiscrinatamente come oggetti, quando esistono tantissimi supporti che ignoriamo, vogliamo scrivere libri vari, quando ormai l'arte si fa per strada, sul proprio corpo, con l'immondizia. Siamo appunto, voces clamantis in deserto, ma ci lamentiamo di essere vestiti di pelle e di mangiare insetti. Desideriamo un mondo che non è mai esistito e disprezziamo quello che abbiamo intorno, come se tutto il male nascesse da atroci perversioni come programmi televisivi, canzoni stupide o giornali di quart'ultimo ordine. Tutto molto romantico, ma non so quanto utile alla nostra vita qui e ora.
Detto questo, passo al secondo aspetto: allo stato delle cose, giusto a 24 anni a vedere chiaramente questo stato di cose, cosa devo fare? Trovare altro, che pure c'è ed è tantissimo, rischiando col tempo di dimenticare cose che per me sono importantissime e che hanno concorso alla formazione della mio modo di vedere il mondo (quindi di rischiare di mettere sullo stesso scaffale, col tempo, Platone e Osho: ovviamente non comprerò mai Osho, è solo per rimanere nella metafora). Queste sono discipline che mi hanno formato, se non le avessi studiate direi cavolate diverse da quelle che dico adesso e che sto scrivendo ora, sono state uno spartiacque tra ciò che ero prima e ciò che sono ora (con tutti i problemi relativi all'io e a quale io, che ovviamente tralascio). Devo conservare questa lezione come un metodo per avvicinarmi alle situazioni cui inevitabilmente mi troverò davanti, devo coltivarle al livello hobbistico finendo come un cinquantenne che legge Focus Storia? Sarei tentato di seguire Wittgenstein, che alla fine del Tractatus (6.54)  scrive:

 Le mie proposizioni illustrano così: colui che le comprende, alla fine le riconosce insensate, se è salito per mezzo di esse, su esse, oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettare la scala dopo esservi salito). Egli deve superare queste proposizioni. Allora vede rettamente il mondo.

 Con questi dubbi concludo gli esami, parlo con i professori trovandoli sempre più distrutti personalmente che non come gli intellettuali che mi aspettavo, alla ricerca di qualcosa che non c'è più: ovviamente il collasso di cui io sono testimone dai miei professori è stato vissuto, nella totale incoscienza, sulla loro pelle (il passaggio da un'università di élite a una di massa e le altre cause che ho cercato di elencare sopra): tutti i dipartimenti e i convegni sono dedicati a professori formatisi nella prima parte del XX secolo, che rientravano in un numero ristrettissimo di intellettuali europei che diede il meglio  nei decenni successivi al boom post bellico: ora i programmi sono di un livello poco più che liceale: se per esempio, 30 anni fa potevano iscriversi pochissime persone, ancora meno si laureavano, i professori che tenevano corsi erano evidentemente pochi e  riconosciuti: nell'università di massa, per parafrasare Big Bang Theory "Chi volete che non abbia una laurea magistrale?".

Io ovviamente non ho alcuna soluzione, scrivo queste cose solo per ordinare le mie pochissime idee ben confuse.

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