lunedì 9 aprile 2012

La superficialità mi inquieta ma il profondo mi uccide.
Alda Merini


Capita spesso che rimanga sveglio quando gli altri in casa dormono, oppure che rimanga da solo: essendo un po' abitudinario, o forse monomaniaco, tendo a toccare solo le mie cose, lasciando quelle degli altri lì al loro posto. Soprattutto di sera, con la luce che passa dalle persiane, luce artificiale della città, dei fari delle macchine, le cose rimangono lì e nello stesso tempo si muovono, diventando altro. Mettiamo che io affianco a me abbia una tazza, di quelle mug. In pieno giorno quella tazza è normale che sia lì dov'è, che non si muova e che sia mossa da me o da chi altro; col buio questa prospettiva cambia. Inizio a pensare che in fondo è solo per un puro caso, talmente accidentale che non lo ricordo nemmeno più, che quella tazza sia lì dov'è. Potrebbe averla comprata un tale prima di me, mettiamo un tale con dei figli piccoli: quella tazza ora sarebbe in frantumi, forse.  Idem per tutte le altre cose che mi (ci) circondano e che riteniamo banali, quindi importanti (se mi serve banalmente una penna e non la trovo sono problemi). Non che io dica che le cose mi parlino, ma mi diverto a ripercorrere all'indietro un atto, un fatto, un esito che diamo per scontato e che ripercorrendolo a ritroso non si rivela in definitiva tanto scontato. Lo stesso discorso ovviamente lo possiamo estendere dalla penna alla cultura, all'amore, a noi stessi arrivando sempre al punto dove ci chiediamo esterrefatti due cose: come è cominciato tutto, e soprattutto, come facevo prima senza?


Giorgio Morandi, Steel Life (1951)

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