venerdì 27 gennaio 2012

L'unica cosa reale

Mancano 53 minuti, da quando ho cominciato a scrivere, a domani. I giorni scorrono via così (ogni metafora è già stata usata, mettetene una a piacere: foglie, sabbia, fiumi...) e non esiste un momento per fermarli, non esiste una pozione per riempirli. Come i giorni passano sul calendario, così noi cambiamo, e Aristotele ci insegna che noi chiamiamo tempo la misura del cambiamento secondo il prima e il poi. Non esiste però alcun momento, in queste giornate che viviamo sulla terra, in cui siamo  esentati dalla compagnia di noi stessi. Esiste sempre un momento in cui ci sediamo, ci stendiamo e il nostro interiore homine viene a redarguirci e farci sentire tutto il suo peso. Il peso di un talento non commerciato, di un fiore non colto o al contrario il bidone che ci hanno rifilato in cambio del talento o la puzza che emanava un fiore che ci sembrava degno della nostra attenzione. Ovviamente non so a cosa mi porterà quanto sto dicendo, se tirerò delle conclusioni, anzi, proprio sulle conclusioni, sto iniziando a smettere, come sigarette: niente più abitudine a razionalizzare, a sviscerare un problema: solo il problema, il mondo di fuori, la realtà e io. Un dualismo che si potrebbe dire idealistico, fichtiano, ma è una situazione che chiunque hegelianamente si trovi a essere come essere nel mondo prova almeno una volta al giorno: per continuare con metafore banali di filosofia ottocentesca, è il pendolo che oscilla costantemente tra la noia e il dolore. Non nascono questi due atteggiamenti, da alcun desiderio particolare, da alcuna particolare considerazione di se: nasce quando non ci sono stimoli, non c'è la musica ribelle che ti dice di uscire e ti urla di cambiare, di mollare le menate e di metterti a lottare. A questa situazione di paludamento, che non analizziamo più fiduciosamente alla ricerca delle cause, per poter poi trovare delle soluzioni, ci si oppone in due modi, opposti ma che danno lo stesso risultato: o ci si ritira a fare quello che ci pare, ma che sarà si e no condivisibile con una sola persona per no più di un anno (se va tutto bene), oppure ci si butta nella mischia, anzi, nella prima mischia che capita, pur di sentirsi vivi. Come diceva una canzone, vale la pena anche di ferirsi per sentirsi vivi. Oppure scendere a patti sempre con tutto il mondo, non volere più esprimersi per entrare in un circolo vizioso di noia (chi veramente sa reggere una conversazione così su due piedi? chi veramente non ha solo tre o quattro interessi di cui parla in continuazione?) e vivere come uno zombie senza alcuna spinta? Mortificare se stessi nell'uno e nell'altro caso: da un lato l'apatia totale, dall'altro il fiume di gente per cui "vivere" vuol dire fare cose che non durano nemmeno il tempo di se stesse, basta semplicemente uscire dai soliti posti e dai soliti schemi. Per poi ritornarci subito dopo senza aver mai abbandonato per un istante  il proprio modo di vedere le cose. Ti vesti, esci, parli di cose con persone che forse ne sanno meno di te, o persone che non ti danno nulla se non continue conferme su cose (o a volte, più tristemente, su nozioni) che già conosci da tempo. Questo a cosa porta, a me personalmente cosa porta, cosa ci guadagno? Una venti euro spesa senza manco potermi ubriacare e alleggerire un po', perché (appunto) siamo sempre tutti misurati, parliamo male dei bigotti ma ci comportiamo come loro, solo che casomai ci scappa più facilmente un Porco Dio che ci fa sentire infinitamente fighi, quasi dei maledetti, solo perchè la domenica mattina non si ascolta la nonna e non si va in Chiesa: dai Carmina Burana alla poesia rinascimentale esiste una enorme produzione satirica sui bigotti, ma noi ci sentiamo delle anime dannate, una specie di Jim Morrison redivivo che scandalizza la società col suo membro in vista sotto i pantaloni di pelle attillati. Una volta tornato a casa quindi, che si fa? E se ti stai a casa, che fai? Come eviti questo uomo nero di Esenin che ti guarda e ti spiattella davanti agli occhi l'inconcludenza della tua vita. Come si fa ad uscire da qui?

Un uomo solo è sempre in cattiva compagnia. (Paul Valéry)



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